Quest’intervista è stata realizzata nel 2021 e la sua versione integrale, completa di foto inedite, sarà pubblicata sul libro “The Queer Talks”, a cui stiamo lavorando, per restare aggiornatƏ iscriviti alla nostra newsletter cliccando qui
Photography and project by © Clotilde Petrosino all rights reserved
Loredane Tshilombo parla con lo slancio di qualcuno che ha aspettato troppo a lungo per aprirsi e dire la propria, in trepidante attesa che altri sollevassero le problematiche che andavano affrontate, e che ora, preso il proprio spazio sul palco, non ha più intenzione di rimanere in tribuna. Ha passato parte della propria vita ad affrontare la frustrazione infilandosi gli Slipknot nelle orecchie per affrontare la rabbia repressa, sollevata in risposta alle vessazioni sistemiche di un sistema intrinsecamente razzista ed eteropatriarcale. Contando che parliamo di una donna queer razzializzata, navigare nell’Italia del primo ventennio degli anni ‘00 dev’essere stata una sfida non indifferente.
Oltretutto, questa intervista si è svolta nella settimana dell’affossamento del ddl Zan, avvenuto lo scorso 27 ottobre, a conferma di quanto il Bel Paese sia ancora indietro nelll’anno domini 2021. Loredane ha parlato della frustrazione che consegue alla continua disattesa delle speranze riposte in una classe politica non rappresentativa, della sua idea di vera inclusività, e dell’inflazione del termine intersezionalità anche quando in nome di questa, si passa a togliere la parola a coloro che vivono sulla propria pelle le stesse problematiche di cui ci si professa ally. La chiusa dell’intervista, però, è un messaggio di speranza in un futuro non solo migliore, ma anche più tranquillo in cui possano concretizzarsi spontaneità e il famoso detto “vivi e lascia vivere”.
Come stai? Come hai reagito all’affossamento del ddL Zan?
Beh, in generale la vita va bene e soprattutto sono sana. Sicuramente l'affossamento del ddl Zan non ha aiutato il mio star bene. La prima reazione è stata la rabbia nei confronti del sistema, e una voglia tremenda di mandare tutto a fanculo. Perché per l’ennesima volta abbiamo ricevuto la porta in faccia. Poi però è arrivata la rabbia contro me stessa. Soprattutto il giorno dopo, dopo aver passato una sera intera a guardare i nostri senatori esultare in Senato per aver ucciso sul nascere una legge che avrebbe protetto delle persone. Perché è da sempre che lo stato ci ribadisce di non essere presente per le persone. Lo dice da 20 anni con una Bossi-Fini che non cambia e dice a chiunque non sia italiano che puoi vivere ma in realtà non puoi vivere, puoi lavorare ma non puoi lavorare.Con il ddl Zan è successa la stessa cosa della legge sulla cittadinanza, che già aspettavo dalle superiori. Per colpa della quale, in terza superiore mi veniva già il mal di vivere per la paura di non riuscire a fare la gita perché coincideva con il rinnovo del mio permesso di soggiorno. È da anni che aspetto dei cambiamenti. E ho aspettato talmente a lungo questa legge e un PD che la sostenesse, che alla fine ho fatto prima a prendere la cittadinanza che a vedere la legge concretizzarsi. Quindi mi sono arrabbiata con me stessa perché cosa mi aspettavo che cambiasse con il ddl Zan? Siamo in un paese che continua a ricordarmi che non è davvero il posto per me, donna nera, queer, che vuole vivere in pace con tutti i diritti e doveri delle altre persone. L’Italia continua a ripeterci che se non sei un uomo bianco cis-het e possibilmente fervente cattolico, questo non è il posto per te.
Tu ci credi allo scollamento tra “popolo vero” e “politica”?
Ni. Sicuramente c’è una distanza, come in qualsiasi situazione in cui in una classe politica non c’è una vera rappresentanza delle minoranze. Perché va da sé che se nell’organico non ci sono membri che rappresentano tutte le fasce della popolazione, non puoi dire di essere un tutt'uno con la popolazione quando eserciti le tue funzioni. Però poi la verità è che i commenti peggiori che abbiamo sentito al senato e poi letto sui giornali, sono gli stessi che ti capita di sentire al bar sotto casa. quando vai al bar non è che ascolti qualcosa di diverso rispetto a quello che senti dire al Senato. Ed è terribile ovviamente, ma è la prova che quello scollamento non c’è poi così tanto. Magari gli estremismi politici sono più rimarcati, ma non vedo tutta questa differenza.
Visto che l’abbiamo menzionata: parliamo di rappresentazione e rappresentanza.
Premettendo che fatico a sentirmi rappresentata in questo paese, un minimo di cambiamento io lo sto vedendo. Soprattutto dalle comunità a cui appartengo: la comunità Black e la comunità Black queer. E le persone all’interno si stanno muovendo per non farsi solo vedere ma anche per trovarsi, per creare degli spazi dove condividere esperienze simili sentendosi meno solə. E per me è tantissimo, venendo da un paesino di 3000 persone dove le uniche persone nere in tutto il paese eravamo noi della mia famiglia. Entrare in una stanza e vedere persone nere e queer che parlano e sono contente, per me vale moltissimo. Prima di passare per i media, per me rappresentazione vuol dire entrare nella stanza e vedere qualcuno di simile a me. Per quanto riguarda la rappresentazione mediatica c’è ancora un lavoro enorme da fare.
Trovi differenza tra rappresentazione estera e italiana?
Sono più avanti, ma nemmeno così tanto. Trovo più avanti Francia, Inghilterra, Belgio rispetto a USA – perché alla fine parliamo di loro quando si parla di media – soprattutto Francia e Inghilterra dove sono alla terza, quarta, quinta generazione di persone razzializzate quindi ti guardi attorno, accendi la Tv e ti senti davvero rappresentata. Mi ricordo una gita a Londra dove a Camden ero andata in estasi, incrociando un uomo nero con dradlocks lunghissimi e doppiopetto. Loro sono molto più avanti, mentre in US mica così tanto. Indimenticabile il viaggio a New York in metro, in cui man mano che ti avvicini ad Harlem la gente bianca scende. Ed è una cosa che a Milano, dove vivo, non mi è mai successa. La divisione in America è talmente netta da essere inquietante. La rappresentazione mediatica è importante, ma se poi, spenta la TV, sono ancora ghettizzata, vuol dire che qualcosa non funziona.
La rappresentazione americana è vittima della dinamica di tokenism?
Beh sicuramente in parte sì, soprattutto nelle grandi produzioni negli ultimi anni si sente la pressione ad apparire inclusivз, anche se non lo si è davvero. Se l’inclusività fosse davvero una problematica sentita, semplicemente apriresti occhi e cervello alle diverse opzioni durante i casting, e avresti un vasto ventaglio da cui scegliere. Se invece devi sempre usare le stesse persone oppure le categorie che pensi ti fruttano di più, non stai parlando di inclusione ma di tokenismo.
Tu ti senti un po’ inserita in questa dinamica?
Quando devo fare un’intervista, devo partecipare a un editoriale, uno shooting eccetera.. sono sempre costretta a pormi la domanda se sono un token oppure no, e non mi piace. Alcuni progetti sono stati facili da accettare perché mi fidavo della persona. In altri casi le proposte di collaborazione o conferenze le ho rifiutate, perché mi invitavano anche se non avevo alcun tipo di expertise.
Qual è la parte bella della tua intersezionalità?
La ricchezza. Tutto ciò che sono mi permette di guardare la realtà da punti di vista differenti, di empatizzare con gli altrз con maggior facilità e di condividere tutte le parti me che mi rendono più serena e più consapevole.
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"L’invisibilizzazione della persona nera queer avviene perché non si riesce a pensarla. E se la si pensa è spesso stereotipata"
Se io non ho esperienza nel campo, tu perché mi stai chiedendo di partecipare? Quando si parla di esperienze personali ha senso, ma se parliamo di temi in cui è necessario sapere di cosa si sta parlando, scegliere una persona nera solo perché nera e non perché conosce ciò di cui parla è scorretto. Quindi mi sono resa conto che devo sempre mettermi due secondi a chiedermi se mi stanno usando. E questa cosa mi strazia perché vorrei poter dire sì a tutto quello che mi viene proposto che mi piace e mi intriga, però sono obbligata a rifletterci due volte, per tutelare sia me, che non voglio essere usata, sia le comunità di cui faccio parte.
Per te intersezionalità cosa vuol dire e come te la vivi?
Adesso che la capisco, la vivo bene. Prima, quando non avevo idea di cosa significasse la parola ma la sentivo su di me, l’ho vissuta in maniera più complicata. A posteriori mi sono resa conto di aver dato spazio solo ad alcune parti della mia identità mentre altre che avevano bisogno di esprimersi le soffocavo.sono cresciuta in una famiglia con una cultura molto maschilista.nelle relazioni con з altrз, mi preoccupavo sempre che il mio essere donna non significasse essere meno agli occhi altrui. E poi essere donna nera, perché essere donna nera nello spazio pubblico ha sempre qualche conseguenza, anche quando sei piccola. Devi stare attenta a come ti presenti, alle treccine che hai, a come ti vesti eccetera. Perché sei un oggetto sessuale–in quanto donna–ma sei un oggetto sessuale a cui si può dire di esserlo–in quanto nera. E quindi è concesso dire che se voglio pago per te.
Per quanto riguarda l’essere queer . Ho accettato la mia queerness velocemente: mi sono vissuta le mie relazioni, le mie cotte, tutto quanto, con tranquillità. E sono stata fortunata in questo. Non è sempre così. A volte le pressioni esterne della società ci costringono a lasciare indietro parti della nostra indentità, mentre lottiamo per altre parti. è difficile vivere serenamente quando devi preoccuparti di classe, razza, religione, orientamento e abilità. E per alcuni soggetti, certe intersezioni pesano più di altre.
La sessualizzazione del corpo femminile nero è legata al concetto di “adultification”?
Certo, per motivi antropologici e culturali si ha la percezione che la bambina nera non è una bambina, ma è adulta molto prima delle altre. Ed è percepita così dalla stessa comunità nera. Come conseguenza accade che la si sessualizzi precocemente. Per esempio mia madre mi faceva sentire già una piccola adulta nel momento in cui entrava in casa un uomo che non fosse della famiglia, e io dai pantaloncini dovevo passare alla tuta lunga. L’idea che un corpo in cambiamento come lo è a 13 o 14 anni sia già un corpo che porta alla tentazione sessuale l’altro, è sbagliato.
Perché il corpo si può sviluppare ma chi c’è dentro è una bambina. E dovresti essere tutelata dalla tua famiglia. Invece la tua famiglia per un proteggerti ti dice che il mondo non ti considera così, e che quindi devi coprirti per proteggerti. Il mondo è anche la tua famiglia, e nel proteggere si va avanti a proporre questi ragionamenti
Come si commistionano la comunità queer black e la comunità white queer?
Allora. La comunità black queer ha voglia di farsi sentire molto di più, e forse le comunità queer bianche dovrebbero interrogarsi sul vero concetto di intersezionalità. Bisognerebbe andare avanti tuttə assieme. Lasciare spazio alle comunità minori. Penso che l’ascolto sia la parte fondamentale dell’incontro tra comunità nere e white adesso, ma un ascolto serio, non un ascolto da “ti passo il microfono mentre io vado a prendermi un caffè.” Perché questo non aiuta nessuno. Se mi passi il microfono devi ascoltare per imparare delle cose che poi potrai andare a dire a qualcun altro come te, perché io queste cose già le so. E posso aiutarti a capirle ma non ci deve sempre essere la pretesa che te le ri-spieghi ogni volta. Ci dovrebbero essere delle sedute, dei momenti di vero dialogo in cui ci si ascolta veramente.
Per le comunità Black, oltre a tutta la vittimizzazione, sarebbe bellissimo se riconoscessero che c’è sicuramente molto dolore ma anche molta ricchezza. Cosa che non si riesce a fare se ogni due per tre devi giustificare la tua presenza nel mondo in qualsiasi posizione ti metti.
La comunità razzializzata è invisibilizzata?
La persona razzializzata non ha molti ruoli da ricoprire nella mentalità collettiva. L’invisibilizzazione della persona nera queer avviene perché non si riesce a pensarla. E se la si pensa è spesso stereotipata. Al momento vivo in un paese che non riconosce l'esistenza dei figli di stranieri come italiani. La situazione generale già non è delle più rosee. L’invisibilizzazione poi avviene anche perché esiste una white queer community che, dopo essere riuscita a prendersi diritti e spazi nel corso del tempo grazie anche a black and brown people, ora dimentica che la lotta non è finita. Che ancora troppe persone vengono marginalizzate e non riconosciute.Poi c’è anche questo processo per cui c’è sempre bisogno di dire “ok, stiamo avanzando sui diritti di un versante, non possiamo lottare anche per altre cose perché è necessario fare un passo alla volta" e di avanzare un minimo scalino alla volta lasciando indietro altre comunità. Ma saliamola insieme questa scala. Anzi: buttiamola giù ‘sta scala
Perché secondo te stiamo legittimando certi comportamenti che poco tempo fa non sarebbero stati accettabili, come per esempio l’utilizzo della "n word"?
Io penso che c’è un accanimento sul poter dire e fare tutto quello che si vuole senza conseguenze. Al poter usare tutte le lettere dell’alfabeto e tutte le parole del mondo. Ed è un accanimento strano. Prima me lo spiegavo con la semplice voglia di offesa. Mi vieni a dire che lo fai per altri motivi, che sono io a essere troppo sensibile e che dovrei riderci su. Però secondo me vuoi solo offendere, ti piace che sotto sotto sai che mi fai male e potresti darmi fastidio. Adesso mi sono risolta nel pensare che in realtà non è così. Penso che semplicemente certe persone siano talmente abituate ad avere tutto, a poter fare tutto, a potersi prendere tutto lo spazio, che la sola idea che qualcuno dica loro di non fare qualcosa, e che qualcuno sia parte di una minoranza, per loro è inconcepibile. Perché quella persona ha avuto tutto, quindi non sarai tu, parte di una minoranza, a dire quello che può o non può fare. Non interessa che per il tuo sentire quella parola costituisca un’offesa: quella persona deve poter fare tutto perché le è sempre stato concesso di fare tutto. È una questione di principio. E non do’ la scusante dell’ignoranza. Certe cose sono una scelta, non sono frutto di ignoranza. E soprattutto, ignoranza non implica mancanza di empatia. Se io certe cose te le dico e ti sto parlando di emozioni, dolori, ferite, non ti sto facendo un trattato accademico sulla parola. Sono questioni di pancia, le hai sentite e vissute anche tu quelle emozioni. Ti manca quindi l’empatia e l’umanità. Quando ti rifiuti c’è una questione di principio per cui non vuoi che la gente detti cosa puoi o non puoi fare nel tuo orticello. Oppure c’è totale indifferenza e menefreghismo. Pessima prospettiva in entrambi i casi.
Intervista e traduzione di Enea Venegoni
Photography, Art Direction Clotilde Petrosino