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Cinema Lesbico e rappresentazione: è cambiato davvero qualcosa?

  • Immagine del redattore: Clotilde Petrosino
    Clotilde Petrosino
  • 15 lug
  • Tempo di lettura: 14 min

Aggiornamento: 8 ott

Abbiamo intervistato la giornalista e scrittrice Federica Fabbiani, tra le altre cose, autrice del Podcast Reno 1959 che ripercorre la storia del cinema lesbico dagli anni 60 ad oggi. Il lesbismo ha assunto in questi anni una rilevanza senza precedenti sugli schermi mainstream occidentali, spiega Federica Fabbiani nell'introduzione al podcast . Non più fantasma, vampira, psicopatica, utile solo a confermare l’eterosessualità della protagonista, la lesbica ha raggiunto nuovi regni del visibile difficili da ipotizzare fino a dieci/venti anni fa.


Federica Fabbiani fotografata da ©Giuliana Misserville
Federica Fabbiani fotografata da ©Giuliana Misserville

Ciao Federica, come stai? Parlaci un po’ di te?  Ciao a voi e grazie per avermi coinvolta in questo bel progetto.

Come sto? Preoccupata e spaventata. Il periodo che stiamo vivendo è inquietante, e sembra sempre

più simile a una distopia. L’arretramento sui diritti è sotto gli occhi di tutti: dai diritti civili e sociali alla crisi della democrazia in molti Paesi. È difficile restare indifferenti. Non so cosa si possa davvero fare, ma di certo non stare zitti.


Com’è nata la tua passione per il cinema, hai un ricordo preciso di un film che ti ha colpita?

La mia passione per il cinema arriva da mia madre. Psicoanalista, organizzava corsi in cui i film diventavano strumenti per esplorare le dinamiche personali e relazionali. Per me, guardare un film non è mai stato solo intrattenimento: fin da piccola ho imparato a leggerne non solo l’estetica, ma anche l’impatto emotivo e psicologico, sia individuale sia collettivo. Alcuni film restano con te, ti modellano, entrano nella memoria personale. Per me uno di questi è stato Lucida follia (Heller Wahn, 1982) di Margarethe von Trotta. Von Trotta è una delle registe più importanti del Nuovo Cinema Tedesco e ha sempre portato avanti un cinema profondamente femminista, attento alle relazioni tra donne, ai loro percorsi di emancipazione e ai vincoli imposti dalla società patriarcale. In Lucida follia, esplora il legame tra Ruth (Angela Winkler), una scrittrice intrappolata in una vita convenzionale, e Olga (una meravigliosa Hanna Schygulla), una pittrice indipendente e anticonformista. Tra loro si sviluppa un rapporto che oscilla tra amicizia e desiderio, senza mai definirsi apertamente come una storia d’amore. Il film rimane volutamente in una zona di confine tra amicizia femminile e lesbismo, giocando su un’intimità che cambia significato in base a chi guarda e da dove guarda. Per ovvie ragioni, la scena che più mi è rimasta impressa è quella finale in cui Ruth riferendosi a Olga la definisce la mia donna. È un momento forte, una dichiarazione d’appartenenza, e un atto di coraggio, perché per la prima volta pronuncia qualcosa che fino a quel momento era rimasto implicito. Questa frase rompe la sospensione che ha attraversato tutto il film, eppure resta comunque intrappolata in un contesto in cui il desiderio tra donne faticava a essere nominato esplicitamente. E’ una dichiarazione di amore, che rivendica un legame che non può essere negato, anche se il film stesso lo lascia in una dimensione sfumata. In questo senso, Lucida follia è stato per me un film emblematico: da un lato, ha aperto uno spazio di possibilità; dall’altro, ha lasciato la relazione tra due donne in una dimensione di non detto, che ancora non rompeva il tabù dell’amore lesbico.


Nell’estate del 2020 esce Reno 1959, il tuo podcast sulla visibilità lesbica nel cinema e nelle serie TV. A cos’è dovuta la scelta di questo titolo e da dove è nata l’idea di fare un podcast?  Il titolo del podcast è un omaggio al film Cuori nel deserto (Desert Hearts) di Donna Deitch, considerato il primo film lesbico con un lieto fine. Uscito negli Stati Uniti nel 1985 (e in Italia nel 1988), è ambientato a Reno, Nevada, nel 1959, una delle poche città americane dove, all’epoca, le donne potevano ottenere rapidamente il divorzio. Qui, le protagoniste si incontrano e vivono una storia d’amore intensa in un contesto storico in cui l’amore tra donne era invisibile o condannato. Nonostante i suoi limiti - dialoghi deboli, personagge secondarie poco sviluppate - Cuori nel deserto ha rappresentato un momento liberatorio. Per la prima volta, le lesbiche non erano costrette a immaginarsi oltre lo schermo, a fare salti quantici per vedersi rappresentate senza drammi o destini tragici. È stato un passaggio fondamentale per la cinematografia lesbica. E oggi, dopo 40 anni, a che punto siamo? È da questa domanda che nasce il podcast, con l’idea, fin dall’inizio, di aprire un confronto diretto con studiose e teoriche come B. Ruby Rich, Jack Halberstam, Silvia Nugara, Marina Pierri, Paola Guazzo, solo per citarne alcune. Il podcast, comunque, non è un esperimento isolato, ma il proseguimento di un percorso iniziato con il sito Leztrailer.it (messo online nel 2009, oggi non più attivo), un canale YouTube e due libri: Visioni lesbiche (2013) e Sguardi che contano (2019). La questione che il podcast affronta è: che cos’è il cinema lesbico oggi e quale tipo di rappresentazione è possibile nell’epoca dell’ipervisibilità lesbica sugli schermi? Si tratta di guardare un film, una serie tv, o una webserie da più angolazioni; oltre lo sguardo fisso per individuare la lesbica sullo schermo, che appunto ormai c’è quasi sempre, per orientarsi su una molteplicità di traiettorie in grado di intercettare percorsi soggettivi e/o collettivi, bypassando categorie identitarie chiuse. Valorizzare la complessità, anche quando questo implichi affrontare la possibilità del conflitto, e esaminare come le questioni di ‘razza’, etnia, classe, età, corpi non conformi, disabilità e altre categorie intersecanti diano forma alle rappresentazioni e alle esperienze delle lesbiche al cinema e in tv. Il podcast cerca di stare su questo crinale nella consapevolezza che non basta essere presenti sullo schermo: conta come, da chi e con quali intersezioni le storie vengono raccontate.


Nel podcast, attraverso l’analisi del film Desert Hearts di Donna Deitch, parli del cinema lesbico. Che cosa si intende per cinema lesbico e quali sono le tematiche ricorrenti? 

Le rappresentazioni lesbiche sono sempre più numerose e costituiscono ormai un campo fertile di analisi critica. Ma restano anche cariche di conflittualità. La definizione di cinema lesbico è un territorio incerto, continuamente oggetto di discussione. Che cosa rende un film lesbico? Una domanda apparentemente semplice, ma che apre un intreccio di questioni: chi dirige lo sguardo, come viene costruita la relazione tra le personagge, che ruolo gioca la questione spinosa dell’identità lesbica e come viene rappresentata, percepita e vissuta. Dunque, come possiamo definire senza ambiguità un film lesbico? Evitando un approccio essenzialista, la risposta più onesta sembra essere che una definizione univoca è impossibile. Troppi elementi entrano in gioco: alcuni sono storici, altri contingenti, tutti comunque sempre in movimento. A complicare la questione c’è anche una coincidenza temporale significativa. Il lungo e travagliato percorso verso la visibilità lesbica ha coinciso con l’emergere e l’affermazione della teoria queer, che soprattutto nel mondo anglofono ha preso il sopravvento negli studi sulla sessualità. Così, nel momento stesso in cui la lesbica diventa visibile, diventa anche superata, quasi un’icona del passato, da riformulare per adattarsi ai nuovi discorsi queer. Se prima era invisibile, poi patologizzata, successivamente ipersessualizzata, oggi sembra normalizzata, ma in un modo che la depotenzia, rendendola nuovamente marginale. C’è però un punto cruciale: oggi ha una storia, e questa storia è anche cinematografica. La domanda allora diventa: che cosa hanno guadagnato – e forse anche perso – le lesbiche nel passaggio dall'invisibilità alla visibilità? Dalla sottocultura al mainstream? In che modo il nostro presente ha ridefinito l’idea stessa di cultura e identità lesbica? Io non ho risposte, solo molte domande, che appunto continuo ad approfondire attraverso il podcast. Per quel che riguarda le tematiche ricorrenti, una su tutte: il racconto della coppia lesbica, spesso incorniciato nell’happy end. Se Cuori nel deserto rese quel finale indispensabile - perché finalmente apriva lo spazio dell’immaginario a un’esistenza lesbica libera da tragedie - oggi rischiamo di essere incastrate in un altro modello soffocante, quello del sogno d’amore. Un nuovo mito, meno esplicitamente repressivo, ma altrettanto normativo. Come ci ha insegnato Lea Melandri, ogni costruzione idealizzata dell’amore può diventare tossica.


Rielaborazione della copertina del film Cuori nel deserto per per il podcast Reno,1959 di Federica Fabbiani
Rielaborazione della copertina del film Cuori nel deserto per per il podcast Reno,1959 di Federica Fabbiani

Ripercorrendo la storia del cinema, che cambiamenti hai notato nella rappresentazione delle persone lesbiche? C’è stato un turning point? Che cosa intendi nel podcast con “lesbica moderna”, ha ancora senso parlarne in questi termini?  Sì, direi che ho notato molti cambiamenti negli anni. Oggi la lesbica non è più solo un fantasma, una vampira, una pazza o una criminale. Non finisce più, con ferrea regolarità, in carcere, in manicomio o sottoterra. E non è più una personaggia di supporto, utile solo a confermare l’eterosessualità della protagonista. Siamo in un’epoca di ipervisibilità lesbica sugli schermi. E non dobbiamo più limitarci a decodificare immagini e sottotesti per individuarla, perché ora esiste apertamente sulla scena. Possiamo persino sottrarci al cappio della rappresentabilità positiva: non deve più essere "buona per noi" (un modello di riferimento per la spettatrice) o "buona per loro" (un esempio accettabile per il pubblico generalista). E si comincia a superare anche l’altro vincolo, quello che ho accennato prima del lieto fine obbligato, che per anni ha ingabbiato la narrazione lesbica all’interno di un’unica formula: la coppia monogama, felice e rassicurante. E poi la personaggia lesbica si è decisamente trasformata. E’ diventata affascinante - si pensi a Carol (Cate Blanchett) - e, fatto sorprendente, questo fascino si estende anche alla sua versione mascolina. Non sono così lontani i tempi in cui la butch aveva una pessima reputazione sullo schermo, mentre oggi, in TV, spicca un’icona come Gentleman Jack (Suranne Jones). Il cambiamento è tale che persino le attrici eterosessuali non temono più lo stigma di interpretare ruoli lesbici. Basti ricordare che, nel 1985, durante la lavorazione del mio amato Cuori nel deserto, gli agenti scoraggiavano attrici e attori (anche quelli con ruoli eterosessuali minori) dal partecipare al film per non compromettere la loro carriera. Insomma, lo scenario è cambiato davvero tanto. Il turning point? Secondo me The L word, che ha definitivamente sdoganato la personaggia lesbica nel mainstream. Prima serie televisiva interamente ideata, scritta, diretta e prodotta da lesbiche (tra cui Rose Troche e Guinevere Turner, rispettivamente regista e attrice/sceneggiatrice dell’iconico Go Fish), è andata in onda negli Stati Uniti dal 2004 al 2009 e in Italia dal 2005. Il suo ritorno con The L Word: Generation Q (2019-2023) ha riacceso il dibattito su cosa significhi oggi una rappresentazione lesbica. Ambientata a Los Angeles, The L word ha messo in scena le vite di un gruppo di donne, affrontando tutte le possibili varianti dell’universo lesbico: dalla convivenza all’inseminazione artificiale, dal coming out alle relazioni familiari, ironizzando anche su come l’invisibilità lesbica si auto-perpetui. Ad esempio, attraverso la resistenza a usare la parola lesbica o la difficoltà a riconoscersi nei modelli esistenti. Certo, The L Word aveva molti limiti. Il cast principale era composto quasi esclusivamente da donne bianche, magre e benestanti, la rappresentazione delle persone trans* lasciava molto a desiderare, e la figura della butch è stata progressivamente marginalizzata o femminilizzata. Tuttavia, resta un'opera pionieristica che ha segnato un prima e un dopo ed ha decisamente spostato la rappresentazione lesbica in un contesto collettivo. Un elemento centrale della serie è The Planet, il bar attorno a cui ruotano le storie delle protagoniste (che in Generation Q diventerà Dana’s). Questo dettaglio non è casuale: i bar sono stati luoghi politici fin dagli anni ’50, fondamentali per la formazione di comunità lesbiche e per la nascita del movimento LGBTQIA+. 

Per quel che riguarda la definizione di "lesbica moderna", nel podcast ha una collocazione precisa, ossia si riferisce a Anne Lister, che così è stata definita per aver vissuto, tra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, il proprio lesbismo consapevolmente, senza sensi di colpa né lesbofobia interiorizzata. La storia di Anne Lister è decisamente affascinante per la condotta audace nella vita sia privata sia pubblica, il tutto quasi ossessivamente registrato nei suoi diari, di cui una gran parte cifrata in un codice personalissimo, in cui ha registrato la sua vita privata, il suo amore per le donne, l’attrazione erotica immaginata e vissuta con le tante amanti, l’assoluta certezza di volere vivere in totale libertà ogni singolo aspetto della passione amorosa. Ne ho parlato nel podcast perché la storia di Anne Lister è diventata un serie televisiva: Gentleman Jack (2019-2022). 

E sì, per me parlare di lesbica, lesbismo e personaggia lesbica ha ancora senso. Mi sono spesso interrogata se fosse più opportuno usare il termine queer, allineandomi a una teorizzazione più fluida e non essenzialista delle identità. Tuttavia, per quanto molte personagge oggi sfuggano a posizionamenti rigidi, la rappresentazione lesbica, cui do un gran peso politico, resta il focus della mia ricerca. Ovviamente non per cristallizzare un'identità rigida o escludente, ma per rivendicare una presenza storica e culturale che non deve essere cancellata. 


Esiste, secondo te un movimento Lesbico italiano? Com’è cambiato? Pensi che ci siano ancora spazi di aggregazione? 

Io non sono un’attivista e non sono forse la persona adatta per rispondere a questa domanda. Ma certamente ci sono vari spazi di aggregazione, che stanno vivendo un momento non facile per la crescente difficoltà a trovare spazi comuni e finanziamenti adeguati a proseguire le attività culturali, sociali, politiche. Penso al Campo lesbico di Agape, a Sherocco Festival, alle associazioni territoriali (Lesbiche Bologna, Azione Gay e Lesbica di Firenze, per citare solo quelle che conosco meglio), tutti i festival culturali e cinematografici LGBTQIA+, di cui c’è un estremo bisogno. Perché , il cinema mainstream e tutto quel che passa sulle varie piattaforme presentano un’immagine della lesbica molto edulcorata e normata, ed ecco che allora il lavoro di ricerca di un festival indipendente di cinema lgbtqia+ diventa fondamentale. Perché davvero io sono molto contenta quando mi sintonizzo su Netflix o qualche altra piattaforma di streaming e trovo un catalogo così ricco di storie lesbiche, ma tiro anche un sospiro di sollievo quando mi trovo a scegliere, con le mie compagne di viaggio del festival di cinema lesbico Some prefer cake, film di registe che difficilmente troveranno una distribuzione in sala e che raccontano altre storie, anche scomode, di vita, di lotta e di resistenza di intere comunità. Some Prefer Cake, che si tiene a Bologna verso la fine di settembre, è una vera e propria esperienza sensoriale, il che molto racconta dell’importanza degli spazi fisici, beni comuni in costante erosione, e della necessità di sentirsi ‘comunità’. Perché questo è il vero senso di tutti i festival di questo tipo: rendere vivo e pulsante uno spazio-tempo politico ed affettivo di incontro per lesbiche e le persone lgbtqia+ tuttә.


Guardando alla situazione politica italiana di oggi e ai numerosi attacchi alla comunità LGBTQIA+, quali parallelismi si possono tracciare con il passato? Che immagini ti vengono in mente? E perché?   Quello che vediamo oggi è un tentativo chiaro di controllo e di riscrittura della realtà. Penso alla campagna di ProVita & Famiglia "Mio figlio no" per impedire che nelle scuole ci sia una qualsiasi apertura su affettività, identità di genere e sessualità. Si continua a parlare di fantomatica ideologia gender, una costruzione puramente propagandistica, perfetta per alimentare paura e legittimare nuove forme di censura. È uno schema che conosciamo bene: creare un nemico interno, qualcosa di "estraneo" alla presunta identità nazionale e culturale. È lo stesso meccanismo che, in passato, ha reso invisibili o mostruose le persone lgbtqia+. Prima eravamo patologia da curare, poi perversione da nascondere, oggi minaccia educativa da espellere dalle scuole. Ecco il parallelismo più evidente: ogni volta che si ottiene uno spazio di visibilità e di parola, arriva una reazione che tenta di riportarci al silenzio e all’invisibilità. Con un’aggravante: oggi questo tentativo viene spacciato come difesa di un presunto diritto delle famiglie, come se parlare di realtà esistenti fosse una forma di indottrinamento. La storia della comunità lgbtqia+ è sempre stata fatta di avanzate e arretramenti, di lotte vinte e spazi riconquistati, ma anche di tentativi di cancellazione. Quello che vediamo oggi, in Italia e non solo, è l’ennesimo tentativo di eliminare parole e corpi scomodi dalla narrazione pubblica. E in questo caso, il campo di battaglia è la scuola, lo spazio dove le nuove generazioni dovrebbero imparare a nominare la complessità del mondo in cui vivono.


É molto difficile trovare una rappresentazione di persone lesbiche over 40, secondo te? Come vengono rappresentate le donne over 40? E cosa vorresti vedere di diverso?  

In realtà, non è solo difficile trovare rappresentazioni di lesbiche over 40 (ma sposterei il limite all’over 50): è difficile trovare rappresentazioni di donne over 50, punto. Dopo una certa età, le donne spariscono dallo schermo. Fuoriescono dal radar della seduttività per lo sguardo maschile e, di conseguenza, vengono semplicemente eliminate dalle narrazioni. Esistono diverse ricerche e statistiche che confermano questa scomparsa sistemica, soprattutto nel cinema mainstream: le attrici di mezza età fanno molta più fatica a trovare ruoli rispetto ai colleghi uomini della stessa fascia di età. Per quanto riguarda le lesbiche anziane o vecchie paradossalmente questa cancellazione è un po’ meno violenta. Forse perché l’immaginario lesbico è già, almeno in parte, sganciato da quella dinamica eterosessuale che lega il valore delle donne alla loro desiderabilità per lo sguardo maschile. Ma anche in questo caso, la rappresentazione è spesso funzionale a uno sguardo esterno, e raramente parte da un punto di vista interno, lesbico, maturo, che racconti l’esperienza dell’età adulta senza stereotipi. Cosa vorrei vedere? Donne lesbiche over 50, 60 e oltre che non devono per forza rinascere dalle ceneri di un matrimonio etero fallito, né incarnare la saggia consapevolezza tardiva. E soprattutto, non vorrei più storie che fanno finta di raccontare un amore, e invece sono un memo su quanto ci servirebbe una tutela legale. Vorrei storie che non si sentano in dovere di giustificare l’età e l’orientamento delle protagoniste, ma che partano dalla loro complessità, dal loro essere donne adulte e lesbiche come un dato di fatto, non come un tema da spiegare. Donne che semplicemente esistono, vivono, desiderano, sbagliano, fanno comunità, costruiscono relazioni che non siano sempre e solo romantiche. 


Decostruire il male gaze è un percorso ancora molto lungo. In che modo il lesbismo si è confrontato con esso, sia dentro che fuori le sale cinematografiche?

Ovviamente il male gaze è ancora molto presente e continua a influenzare come e quali corpi e desideri vengono mostrati sullo schermo. È uno sguardo che nasce dentro uno schema eterosessuale e bianco, e proprio per questo ha sempre escluso o deformato non solo le lesbiche, ma anche le persone razzializzate, le soggettività non conformi, le esperienze trans e tutto ciò che non rientrava nei codici di desiderabilità e riconoscibilità imposti. Il lesbismo ha avuto, e ha tuttora, un rapporto scomodo con questo sguardo. Come scrive la teorica Patricia White, “il lesbismo è una presenza spettrale che perseguita la casa della teoria cinematografica femminista”: c’è, ma non ha mai trovato davvero posto dentro quel discorso, proprio perché il lesbismo mina l’ordine eterosessuale su cui si è costruita una parte della teoria femminista classica, come quella di Laura Mulvey (che per prima ha teorizzato il male gaze). Le lesbiche erano fuori campo, o reintegrate in una narrazione etero-centrica, come fantasia erotica o devianza da correggere. Allo stesso tempo, bell hooks ci ha mostrato che non esiste uno sguardo neutro o universale: ogni sguardo è attraversato da ‘razza’, classe, genere e sessualità. Il male gaze non è solo maschile, è anche bianco, e ha storicamente oggettificato i corpi femminili bianchi e cancellato o distorto quelli delle donne nere e delle soggettività non conformi. Qualunque riflessione sullo sguardo lesbico deve fare i conti con questa stratificazione di poter/oppressioni. Decostruire il male gaze non è quindi una semplice questione di rappresentanza o di quantità di corpi lesbici sullo schermo, ma un processo politico e culturale, che riguarda chi racconta, da dove racconta e per chi racconta. E proprio per questo è un lavoro ancora in corso e necessario.


Tre registe e tre film preferiti?

Céline Sciamma, Julia Ducournau, Lana e Lilly Wachowski

Il cielo sopra Berlino (Wim Wenders, 1987), Carol (Todd Haynes 2015), Ritratto della giovane in fiamme (Céline Sciamma, 2019). 


Ci sono dei libri, film o serie tv che hai letto o visto di recente che consiglieresti?

Ultimamente ho letto il saggio di Geneviève Sellier Le culte de l’auteur, les dérives du cinéma français (La Fabrique Editions, 2024), un testo molto documentato, anche coraggioso e, ovviamente, controverso che smaschera il culto dell'autore nel cinema francese come dispositivo culturale volto a glorificare il regista, ignorando le dinamiche di genere e di potere che lo attraversano. Molto interessante, meriterebbe una traduzione in italiano. Poi, in italiano, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+ (Einaudi, 2021) di Maya De Leo, un testo fondamentale per capire come si sono costruite nel tempo le categorie e le parole che usiamo oggi, e quali battaglie le hanno segnate. 

Mi è piaciuta moltissimo la miniserie Compagni di viaggio (Fellow Travelers, Prime video, 2023), che racconta una storia d’amore tra due uomini sullo sfondo della persecuzione degli omosessuali a Washington negli anni ’50. Colpisce il peso della memoria, che rivela quante possibilità di vita sono state cancellate dal pregiudizio (anche interiorizzato) ricordandoci quanto il privato e il pubblico siano sempre intrecciati.

Come film, consiglio Emilia Pérez (Jacques Audiard , 2025) pur essendo consapevole delle critiche sollevate, in particolare dalla critica trans* (penso a Paul B. Preciado) e dalla comunità messicana. Nonostante questi limiti, su cui concordo, l’ho trovato un film potente e stratificato, capace di mescolare generi e linguaggi in modo originale, lasciando un segno forte e disturbante, difficile da archiviare.



Intervista di Bartolomeo Goffo Editor Clodoveo C. Petrosino

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