L’elefante nella stanza: gli stereotipi sociali binari.
Spoiler alert: genere e sesso assegnato alla nascita spesso non corrispondono e il binarismo di genere è una farsa che ci hanno propinato.
Il sesso “biologico” viene generalmente definito guardando ai genitali, e questi sono quelli che la società ha storicamente deciso di dividere in maschili e femminili. Il genere invece, è indipendente dalla sentenza del dottore nel momento della nascita. Il genere è legato all’identità di una persona e non è una scelta né per le persone cisgender, coloro il cui genere è allineato con il sesso biologico, né per le persone transgender, ovvero coloro il cui genere differisce da quell’etichetta. Conosci il tuo genere e basta. Ma per le persone trans è più difficile accettarlo proprio perché quell’identità viene ancora concettualmente legata a doppio mandato ai genitali. Sotto l’ombrello “trans”, troviamo individui che si identificano con il polo opposto dello spettro del genere rispetto a quello assegnato alla nascita (per esempio quando viene assegnato il sesso femminile ma la persona crescendo rivelerà di essere maschio), oppure chi si sente nel mezzo di quello spettro e non si ritrova appieno né nell’identità femminile né nell’identità maschile (come succede per esempio con le persone non-binary).
Già, anche se la confusione persiste, transgender non indica soltanto persone che decidono di andare incontro all’operazione per la riassegnazione del genere. E proprio perché non sono i genitali
a definire il genere di una persona.Le domande a riguardo sono inappropriate.
Quindi, cosa dovremmo farne di tutti quegli stereotipi legati alla differenza maschio-femmina propugnati dal patriarcato, se non buttarli nel luogo preposto (il cestino, quello dell’umido)?
Il riferimento è a tutta quella serie di idee per cui le donne devono essere accudenti, premurose, suadenti e avere il privilegio di poter mostrare le proprie emozioni, mentre gli uomini sono i breadwinner a cui chiedere consiglio, protezione e affidare la propria esistenza. Stereotipi legati al binarismo e alla biologia dei corpi che si sono storicamente riflessi nell’estetica e nell’aspetto esteriore di quello che definiamo donna e uomo. Il femminile è dolce e non dovendo rivestire ruoli socialmente importanti, il suo aspetto e il suo guardaroba sono stati codificati per essere piacevoli alla vista. Il femminile ha necessariamente un allure morbido e accogliente, invitante. Al diminuire di questo allure, diminuirà anche il tasso di femminilità percepito di una persona. Il maschile, al contrario, è il sinonimo di virilità e forza. Da qui, l’ideale del forzuto palestrato che non deve chiedere mai e che soprattutto deve essere emotivamente inaccessibile. Non si azzardassero a mostrare le proprie emozioni e ad avere uno spessore emotivo più profondo di una pozzanghera!. La standardizzazione dell’aspetto esteriore è arrivata al punto che in un certo momento storico vennero emanate delle leggi per cui donne con i pantaloni e uomini con le gonne erano perseguibili penalmente.
Le regole del corpo e come controllarlo: disturbi dell’alimentazione.
Ogni centimetro del corpo umano è codificato, e ad ogni libbra di carne di una persona possiamo attribuire una quantità specifica di femminilità e mascolinità. I muscoli sono da uomini, i fianchi larghi sono da donne e così via. Continuiamo a raccontarci che l’identità femminile e quella maschile debbano corrispondere a caratteristiche fisiche specifiche e stereotipate, e se questi stereotipi hanno conseguenze negative per ogni individuo, cisgender o non, sulla comunità LGBTIQ+ gravano in modo particolare.
Perché c’è sempre un problema di credibilità.
Non sei abbastanza non-binary se il tuo aspetto esteriore non è sufficientemente androgino. Anche se ti dichiari come tale, non sei sufficientemente donna se non ti ultrafemminilizzi secondo gli standard della bellezza femminile eteronormati (che ricordiamolo, sono anche estremamente occidentali e caucasici). Per non parlare di quella serie di caratteristiche che vengono persino appioppate alle persone omosessuali, come se aspetto e sessualità fossero correlati in alcun modo (la storia del gaydar che permette di cogliere l’omosessualità di qualcuno solo spottando certe caratteristiche vi dice niente?). Il corpo della lesbica è codificato al punto che abbiamo una scala specifica che va da butch a femme a seconda dell’aspetto. Su questa scala vengono quantificate caratteristiche fisiche che rifletterebbero anche supposte caratteristiche caratteriali, e che perpetuano il binarismo di genere. Le butch che si presentano con un aspetto più “simile” ad un uomo, sono invariabilmente le dominanti e rozze, le femme più vicine allo stereotipo di “donna” sono percepite automaticamente come le sottomesse e dolci (nonché le fake che torneranno con un uomo appena finita la fase di sperimentazione, non essendo abbastanza “lesbiche” nell’aspetto). La butch sarà la “maschia”, “l’uomo della coppia”, snaturandola indebitamente della propria identità femminile soltanto perché è ben lontana dallo stereotipo della modella di Victoria’s Secret. Al contrario, un uomo gay con caratteristiche più “femminili” sarà automaticamente pensato come il “passivo” della coppia, di nuovo rimandando alla natura remissiva delle donne. Siamo talmente intris* di questi stereotipi che guardiamo anche a* gender bender per eccellenza attraverso lenti eteronormate.
Con questi stereotipi vengono ingozzate sin dalla nascita, anche le persone della comunità LGBTIQ+ , spesso senza che se ne rendano conto.
Il tentativo di assecondarli per essere abbastanza credibili nei propri ruoli, per farsi accettare, ha conseguenze non solo sociali. Una serie di ricerche ha infatti dimostrato come nella comunità LGBTIQ+ il tasso di disturbi dell’alimentazione sia, in paragone, più alto che tra le persone cis-het (=cisgender e etero). La premessa doverosa da fare è che i disturbi dell’alimentazione non c'entrano niente con l’estetica. Nella maggiorparte dei casi sono un mix brutale e subdolo di ricerca d’affetto, attenzione e tentativo di controllo della propria vita. Il che, è piuttosto in linea con il bisogno di individui trans+ o non eterosessuali di doversi adeguaresi a dei canoni estetici che la società impone, per sentirsi accettat* almeno da qualcuno-bisogno che hanno tutt*, che piaccia o no ammetterlo. Per le persone trans+, entra in campo il bisogno impellente di avere un minimo controllo su quella biologia canaglia che l’ ha fatt* nascere con attributi genitali e fisici che non sentono propri.
Comportamenti alimentari malsani possono diventare mezzi per alterare a proprio piacimento l’influenza della biologia sul proprio corpo, sulla quale generalmente si ha poca possibilità d’azione. Per esempio si è rilevato che alcuni uomini trans decidono di ridurre l’assunzione di cibo per rimanere sottopeso e fermare il ciclo mestruale, che diventa un reminder mensile delle proprie ovaie indesiderate. Le donne transgender possono tentare ad esempio di modellare il proprio corpo per adattarsi a quello dell’ideale canonico della fisicità femminile a clessidra slanciata. La guerra quindi la si combatte su due fronti: affrontando il proprio corpo in cui non ci si riconosce, e affrontando gli standard sociali che ci vogliono in un certo modo. L’eccessivo esercizio fisico per scolpire il corpo, i comportamenti bulimici, la riduzione dell’alimentazione diventano quindi mezzi per corrispondere ai canoni estetici e per controllare quei cambiamenti fisici che avvengono con la pubertà, e che si ha la sensazione siano una sentenza irreversibile. Motivo per cui non dovremmo stupirci che alcuni esperti supportano l’utilizzo di bloccanti della pubertà che mettano “in pausa” lo sviluppo in adolescenti transgender in dubbio sulla propria identità di genere,
E hai voglia a rassicurare una persona trans che è il suo genere indipendentemente dal BMI o dalle curve e che lo è già prima di coming out e transizione. Quando il resto del mondo ti rema contro, la pressione collettiva è difficile da scrollare, e si aggiunge al demone tutto personale della disforia di genere, e che niente ha a che fare con la società. Nasce da dentro e fa percepire la propria pelle come sbagliata, incongrua a sé stess*, figlia di un difetto di fabbrica. Come far accettare il proprio corpo quando la persona ha la consapevolezza netta che quel corpo sia sbagliato?
Ma * terapeut* sono preparat*?
Sono ancora poch* * specialist* preparat* ad affrontare questa problematica dal giusto punto di vista. Già per trovare qualche specialista formato per seguire a una persona transgender bisogna fare un rito votivo a Odino in una notte di luna nuova, figuriamoci trovare un* specialista che sappia trattare i disturbi dell’alimentazione tenendo conto delle specificità del caso. Perché sì, le persone transgender hanno delle specificità nelle proprie problematiche e i percorsi terapeutici dovrebbero essere adattati di conseguenza.
Ma qui rasentiamo l’utopia.
Rimanendo sui disturbi dell’alimentazione, le strutture specializzate spesso non sono accoglienti. Dalle testimonianze di pazienti transgender che hanno trovato il coraggio di andare in cura per affrontare i propri disturbi dell’alimentazione, emerge come venissero poi scoraggiat* dal sistema, subito dopo aver cominciato la terapia. Questo per l’impreparazione di personale sanitario a occuparsi della salute mentale quando le problematiche si intrecciano con tematiche di genere. Capita che l’atteggiamento sia inconsapevolmente (ci si augura) discriminatorio, e che il personale sia percepito come insensibile e incapace di capire le problematiche riportate. Non mancano nemmeno episodi di misgendering e deadnaming durante la terapia. Controversie che potrebbero essere superate con una migliore educazione della popolazione generale, ma soprattutto degli specialist* che lavorano in certi settori. Ma sappiamo che il tema dell’educazione su identità di genere e orientamento sessuale è sempre delicato e problematico, e si preferisce intessere una ragnatela di moralismi inutili a scapito di una certa comunità di persone, piuttosto che affrontare queste problematiche e non lasciar indietro nessun*. Nella sfera dei disturbi dell’alimentazione, tutto si rifà a dei costrutti sociali: sia per quanto riguarda i canoni estetici che indicano come si definisce attraente l’uno o l’altro corpo, sia per quanto riguarda quello che è socialmente accettato come “femminile” o “maschile”.Non abbiamo ancora ben in testa che anche gli uomini possono avere un ciclo mestruale, e facciamo pagare lo scotto della nostra chiusura mentale a coloro che cadono fuori da quella che viene definita “normalità”.
Articolo di Enea Venegoni
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