This interview has been made in 2021. Full version available only on The Queer Talks book. To be updated about the release clicca qui
Evan by © Clotilde Petrosino all rights reserved
Evan, 27 anni, ha iniziato la transizione da ormai due, ma quello che non sapeva è che durante il percorso sarebbe involontariamente diventato un info point. Un po’ per necessità personale un po’ spinto dal prossimo, Evan aveva iniziato a raccogliere informazioni sulla transizione FtM dai canali presenti oltreoceano, già dieci anni prima di trovare finalmente il coraggio di imboccarla a sua volta, al netto delle ripercussioni esterne.
In questo stream of consciousness, Evan ci accompagna attraverso temi salienti quali la mancanza di una divulgazione appropriata di informazioni utili per persone che debbano cominciare la transizione, le ambizioni legate al corpo create dal modello tossico cis-eteronormativo che si insinua persino all’interno della comunità queer, la difficoltà con i centri che avrebbero dovuto supportarlo in uno dei periodi più delicati della propria vita, la discriminazione radicalmente instaurata all’interno della comunità che lo ha reso vittima di alcuni episodi violenti e, in generale, cosa ha significato, nel bene e nel male, affrontare un percorso simile ormai da adulto. La morale di questa favola giace nella speranza che, prima o poi, riusciremo a sfilarci le lenti binarie con cui ancora guardiamo al mondo.
Ciao Evan, per cominciare parlaci di te.
Sono Evan, sono un ragazzo trans, sono originario di Roma ma vivo a Milano. Originariamente avevo scelto un nome francese, ma nel contesto italiano sarebbe stato inevitabilmente storpiato. Con Evan non ho comunque fatto una scelta furba, perché tuttə mi chiamano Ivan. Ho 27 anni ma la terapia ormonale, che ho cominciato due anni fa, mi ha ringiovanito e me ne danno molti meno. Prima di trovare lavoro a Milano stavo finendo il percorso di studi in Marketing e Comunicazione d’Impresa a “La Sapienza di Roma”. Ho trovato un’offerta di lavoro a Milano e mi sono trasferito in una settimana. Ho cambiato aria anche perché non avevo un rapporto meraviglioso con i miei genitori, che, in realtà ,è stato migliorato dalla lontananza.
Quando hai acquisito consapevolezza di essere un ragazzo?
Avevo iniziato a cercare informazioni già nel 2013, ma si trovava poco o niente e quelle reperibili provenivano dall’estero, soprattutto dagli USA. In Italia i siti erano fatti malissimo e contenevano informazioni non aggiornate, quindi ho dovuto iniziare a bazzicare gruppi Facebook ad hoc. All’epoca, avevo 15 anni e possedevo già una consapevolezza interna del mio genere. Ma, oltre che essere confuso dall’assenza di informazioni, ero bloccato anche dall’idea del giudizio dei miei genitori. Abitavo in un paesino di 6000 anime, nemmeno sapevo si potesse fare una transizione FtM (female to male). Ho iniziato a creare contenuti informativi per aiutare chi sta iniziando il percorso.
Beh forse arriva tutto nel momento in cui deve arrivare. È normale che ora anche ragazzini di 15 anni ci arrivino, con tutti gli esempi e le informazioni che per fortuna hanno a loro disposizione. Parlando di questo, quali sono state le criticità durante la transizione che ti auspichi non tornino nelle future generazioni?
È stata tutta una criticità. Oltre a mancare le informazioni, è stato difficoltoso in un primo momento sapere da dove iniziare. Anche aggiungendo persone su Facebook e chiedendo a loro, ognuno aveva informazioni diverse a seconda del centro che frequentava. Anche perché la transizione non ha un inizio e una fine come spesso piace narrare alla maggior parte dei media, ognuno di noi decide di stabilizzarsi in base alle proprie esigenze. C'è chi non si opera per esempio per i limiti scientifici o per scelta personale, qualcuno utilizza il microdosing qualcuno il dosaggio pieno e così via.
Ad esempio, una cosa che trovo antitetica è l’obbligo, nel percorso pubblico, di fare 6 mesi di terapia psicologica. Non è detto che le persone vogliano o sentano il bisogno di farsi 6 mesi di terapia psicologica, basti pensare a persone di mezza età che ormai non ce la fanno davvero più a ritardare. Oltretutto, teoricamente in un percorso psicologico non si dovrebbe imporre una durata della terapia ma basarsi sul bisogno della persona. Penso che il percorso dovrebbe essere su base volontaria, che non dovrebbe esserci l’obbligo di andare dallo psicologo. Questa imposizione dall’alto di fare terapia non ha senso, perché sono convinto che la maggior parte delle persone sentirebbe comunque il bisogno di fare terapia, perché la transizione non è facile da gestire e l’affaccio sulla società è sempre complesso.
Capisco l’idea che “ogni cosa arrivi a suo tempo”, ma non posso pensare al disagio che crea la sensazione di aver “sprecato” (non riesco a dire altrimenti) anni della propria vita in un corpo che non rispecchia la tua identità. Quelli per me sono anni buttati, che non mi verranno ridati. Non ho vissuto molte esperienze formative nel mio genere maschile e mi ritrovo a doverle fare ora, a 27 anni. La fase adolescenziale e prepuberale a questa età, ad esempio, me la sarei evitata tranquillamente. È una cosa che, per me, è stata difficile accettare e non vorrei si ripetesse nel futuro.
L’altro problema, almeno per quanto riguarda la mia esperienza, sono i centri pubblici. In Italia la maggior parte dei centri che si occupano di transizione seguono il protocollo ONIG, sotto la spinta delle persone transgender che avevano bisogno di una legge che regolamentasse il percorso di transizione a livello burocratico, che è poi arrivata nel 1984. Il problema è che questi centri seguono delle regole vaghe e malleabili. Essendo così malleabili, dato che i spesso hanno bisogno di soldi, non essendo finanziati dalle regioni, ti tengono all’infinito perché han bisogno di pagare gli stipendi. Alcuni passaggi sono dispendiosissimi. Oltretutto non è raro trovarsi in situazioni in cui i terapeuti fanno gatekeeping, tenendo il paziente all'infinito. Alla lunga questi protocolli ci incatenano.
Nel resto d’Europa, invece, i centri seguono i protocolli WPATH dove la terapia psicologica è opzionale e la relazione per la terapia ormonale viene consegnata praticamente subito. Tutte le altre pratiche sono amministrative e vengono eseguite con la stessa facilità con cui si aggiorna la patente. In Italia, invece, siamo obbligati a ottenere la sentenza del tribunale per rettificare l'anagrafica e avere accesso alle operazioni demolitive e di ricostruzione, come fossimo persone in attesa di giudizio, senza tenere conto che mentre ciò avviene il nostro corpo cambia e ci ritroviamo a girare con documenti completamente diversi da come appariamo. Ad esempio, durante il lockdown per il COVID ho avuto problemi perché giravo con dei documenti incongruenti al mio aspetto fisico. ə poliziotti mi fermavano e credevano che girassi con i documenti di qualcun altro. Questo è stato un altro elemento che ha fatto sì che la nostra comunità si isolasse ancor di più, per non incorrere in situazioni discriminatorie e in escalation violente verbalmente e umilianti.
A livello di informazioni come potremmo migliorare?
Ultimamente le cose sono migliorate. È nato InfoTrans, un portale istituzionale creato dal Ministero della Salute e UNAR. Però il portale avrebbe bisogno di un aggiornamento più costante non solo "dall'alto" ma anche dal "basso": sarebbe bello avere una sezione dove è possibile lasciare feedback sui vari centri e ospedali, così da valorizzare le esperienze pratiche e concrete di chi li frequenta.
A livello mediatico la situazione è migliorata anche perché l’argomento è caldo, oltre che clickbait. Spesso, però, si finisce per intervistare o dare luce a persone che o non sono informate, oppure che hanno una visione molto binaria del percorso. Di conseguenza, se si dà credito a queste persone, oppure a pochissimə elettə, le informazioni che vengono fornite sono ristrette e, alle volte, persino sbagliate. Così, si da spazio alla disinformazione.
Evan by © Clotilde Petrosino all rights reserved
"Attraverso i diversi media potremmo arrivare ad una narrazione diversa, priva di stigmi"
(TRIGGER ALERT) Hai anche accennato alla concezione fissa di binarietà come problema: puoi approfondire l’argomento?
La concezione del mondo come prettamente binario, per me, è un grande ostacolo. Le difficoltà maggiori le ho incontrate durante i primi mesi della transizione, quando non si capiva bene quale aspetto avessi. La mia disforia era arrivata alle stelle, perché era un continuo sentirmi chiedere se fossi un maschio o una femmina. Era un continuo bisbigliare attorno a me. Mi è capitato un episodio particolarmente spiacevole in treno, quando un ragazzo, probabilmente attratto da me, si è permesso, come spesso succedeva, di chiedermi se fossi maschio o femmina. In quei casi rispondevo sempre che ero un ragazzo trans (e lì partiva l’epopea di domande). Quando ho risposto così a quel ragazzo, lui ha dato di matto. Continuava a guardarmi tra le gambe e a chiedermi cosa avessi lì e persino a chiedermi se avessi tutti e due i genitali. A un certo punto si è alzato e si è avvicinato a me. Ho avuto paura perché nonostante fossi su una metro ,piena di gente ,nessuno mi ha aiutato. Se fosse stato di notte probabilmente sarebbe andata molto peggio.
Attraverso i diversi media potremmo arrivare ad una narrazione diversa, priva di stigmi. Ma sarebbe anche importante iniziare a fare una raccolta dati seria e consapevole. Se non si hanno i dati alla mano si diventa invisibili all’occhio delle istituzioni. Senza dati non si ha modo di controbattere e di impedire alle istituzioni di parlare a vanvera. Spesso, la paura si basa sul timore delle detransizioni quando anzitutto non dovrebbe essere un problema se qualcuno pensa di voler percorrere il percorso di detransizione. A conti fatti gli studi svolti dimostrano che meno dell’1% delle persone che inizia un percorso di transizione, decide di interrompere e fare la detransizione.
Uno dei problemi è che non si parla mai nemmeno dei motivi della detransizione, in realtà.
Le persone decidono di cambiare sentiero perché nella società non riescono a vivere come persone trans, oppure non hanno i mezzi economici per portare avanti il percorso. Ma anche in questo caso, non dovremmo sentenziare a riguardo. Se una persona durante la transizione si rende conto che viveva meglio prima, non dovrebbe essere un problema e non dovrebbe inficiare il percorso di transizione di altrə. La vita è della persona, che deve poter avere il diritto di scegliere. Fra l’altro, ci vengono chieste delle relazioni psichiatriche per assicurarsi che siamo capaci di intendere e di volere. Perché non lo applicano a tutto? Perché non applicano la stessa regola agli interventi estetici, che possono causarti delle grosse problematiche se vengono eseguiti male? Se fai una rinoplastica e ti va male, potresti avere un crollo psicologico, anche grosso, perché parliamo di un punto centrale del volto.
Lo Stato, in questo momento, ha in mano la nostra vita ma non sa come gestire identità e modi di vivere diversi dalla “norma”. Solo da poco si sta facendo un censimento della popolazione trans. Fino ad ora non c’era, l’unico era stato fatto un sacco di tempo fa, basato esclusivamente sulle persone con rettifica dei documenti e che hanno subito l’intervento—che sono la percentuale minore delle persone trans. Basti pensare che lasciano fuori tutte le persone non-binarie. Ma oltre a questo, servirebbe anche mettere al corrente la Sanità su tutti i protocolli che bisogna seguire.
Quali sono le aspettative legate al binarismo di genere che pesano sulle persone trans?
Argomento veramente vasto che si può dividere concettualmente in aspettative che facciamo noi su noi stess e quelle che si fanno gli altri su di noi. Nel primo caso può succedere di prendere come modelli di riferimento persone oltreoceano o stereotipicamente molto binarie che magari non solo non hanno la tua stessa conformazione fisica, ma avranno anche dosaggi ormonali diversi da quelli italiani (i dosaggi americani, ad esempio, sono completamente diversi). Anche i tipi di testosterone sono diversi e i risultati saranno diversi. Io stesso mi sono ritrovato ad avere aspettative altissime settate sul profilo americano. Ed è stata dura digerire che non le avrei raggiunte.Quindi, come le persone cis hanno aspettative basate sui modelli passati attraverso i media, anche noi ci siamo ricavati dei modelli e anche quei modelli, spesso stranieri proprio perché all’inizio le informazioni arrivavano solo da fuori, sono totalmente differenti da noi. E di questo ne risentiamo a livello identitario, perché finiamo con l’essere sempre insoddisfattə, non riuscendo a raggiungere quelle fattezze completamente distanti da noi stessə.
Inoltre, la nostra idea binaria di come dev’essere un uomo potrebbe essere legata anche ad una sorta di transfobia interiorizzata, su cui io, per esempio, sto lavorando. Mi rendo conto che molti ragazzi non si sentono abbastanza uomini perché non hanno la barba, perché accavallano le gambe o perché non hanno altre caratteristiche fisiche e/o comportamentali legate a quella mascolinità tossica di cui risentono e che hanno introiettato. Io mi rendevo conto che durante i primi periodi di affaccio alla società cercavo di attuare dei comportamenti quasi a mo’ di emulazione, perché volevo standardizzarmi a ciò che la società stessa e le persone si aspettavano da me "in quanto uomo" lo facevo inconsciamente per dolore, per non soffrire più la diversità in una società che non è pronta ad accoglierla. Interfacciandomi con persone di genere maschile andavo in qualche modo a fare squadrismo e cercavo di emulare dei loro comportamenti. Ad esempio io accavallo spesso le gambe, ma se stavo in luogo pubblico evitavo di farlo. O per esempio mi mettevo sempre il packer perché ero reduce dei primi mesi in cui la gente mi guardava sempre tra le gambe per capire se fossi uomo o donna. Adesso lo indosso solo quando mi va perché è scomodo, fa sudare e magari non mi va di metterlo.
Facevo tutto per allontanare quei tratti che mi erano rimasti in 25 anni di socializzazione femminile, mentre ora, in realtà da quei tratti ne ho ricavato una ricchezza. Ho fortunatamente rotto quel filo che mi legava un po’ alla tossicità di questo circolo vizioso. Moltə di noi invece ne rimangono invischiatə perché è molto difficile uscirne, a prescindere che tu sia trans o cis.
Cosa intendi quando dici che sei riuscito a ricavare una sorta di ricchezza dall’aver vissuto socializzato come donna per 25 anni?
Ultimamente le cose sono migliorate. È nato InfoTrans, un portale istituzionale creato dal Ministero della Salute e UNAR, . Però il portale avrebbe bisogno di un aggiornamento più costante non solo "dall'alto" ma anche dal "basso": sarebbe bello avere una sezione dove è possibile lasciare feedback sui vari centri e ospedali così da valorizzare le esperienze pratiche e concrete di chi frequenta quei posti e quei professionisti.
A livello mediatico la situazione è migliorata anche perché l’argomento è caldo, oltre che clickbait. Spesso, però, si finisce per intervistare o dare luce a persone che o non sono informate,oppure hanno una visione molto binaria del percorso. Di conseguenza, se si dà credito a queste persone, oppure a pochissimə elettə, le informazioni che vengono fornite alle persone sono ristrette e,alle volte,persino sbagliate. Così, sii da spazio alla disinformazione.
Progetto e fotografie di Clotilde Petrosino
Intervista e traduzione di Enea Venegoni