Quest’intervista è stata realizzata nel 2021, sarà pubblicata nella sua versione integrale completa di foto inedite, sul libro “The Queer Talks”, a cui stiamo lavorando, per restare aggiornatƏ iscriviti alla nostra newsletter cliccando qui
Mira by © Clotidle Petrosino all rights reserved
Penso sia importantissimo per tutte le persone là fuori, transgender e no, capire che la “condizione” Trans è assolutamente una cosa personale. L’identità di genere è un aspetto puramente intimo, ed è normalissimo che ognunə abbia il suo modo di relazionarsi ad essa. Da qui si collega il concetto di “percorso” e/o “transizione”. È irreale continuare a pensare che tutte le persone transgender considerino la medicalizzazione come unico modo di vivere in modo totalmente onesto a loro stessə.
Come è irreale pensare che il percorso di medicalizzazione sia una seria obbligata di step uguale per tutt* (ormoni, chirurgia caratteri sessuali secondari, infine chirurgia di riassegnazione di genere) e non magari come step singoli che una persona può decidere di compiere, nell’ordine che preferisce, se e quando se la sente.
Nonostante ogni esperienza sia diversa dall’altra, tutte sono valide allo stesso modo.
Persone T* che considerano altre persone T* meno valide solo perchè hanno una diversa relazione con la loro (stessa) identità di genere, sono tossiche verso la comunità stessa, e rifflettono il tipo di discriminazione che le persone cisgender hanno sempre avuto verso di noi.
Ognuno vive il proprio genere e la propria identità come meglio sente, nei modi che riesce; nessuno deve pensare che sia giusto commentare l’identità di qualcun altro o come questə la voglia vivere ed esprimere.
Così inizia l’intervista con Mira, con un’importante riflessione sull’identità di genere e sul concetto di transizione
Raccontaci qualcosa di te…
Dopo aver studiato per 5 anni design ceramico in una piccola città chiamata Faenza, mi sono trasferito a Milano, perché volevo continuare il percorso artistico. Entrambi i miei genitori sono artisti, quindi quel mondo fa parte di me, e non volevo abbandonarlo. Così ho iniziato a studiare moda, perché considero il tessuto uno dei materiali secondo solo alla ceramica, per quanto riguarda il maneggiarlo e il creare qualcosa di veramente stupendo. Mi interessano molto la modellistica e la maglieria - argomento della mia tesi -, sia a mano sia a livello industriale.
Liceo artistico, poi Milano: in quale dei due scenari è avvenuto il tuo coming out?
Ho fatto coming out quando frequentavo il liceo in una piccola città. Posso dirti che sono stato abbastanza fortunato, perché al liceo artistico, c’erano diversi ragazzi che appartenevano alla comunità LGBTQIA+ (come da stereotipo). Mi sono sempre sentito a mio agio, anche se ero l’unica persona trans. Quando ho chiesto ai miei insegnanti se potevano rivolgersi a me con il maschile, è andata bene. Anzi,quando ho chiesto ad una professoressa di poter parlare del mio coming out ai miei compagni, al termine di una sua lezione, mi ha ringraziato perché mi sono sentito a mio agio a farlo davanti a lei. Fin qui, quindi, tutto bene… poi sono iniziati i problemi.
In che senso?
La questione spogliatoio non è stata così semplice, come potrai immaginare. Avevo chiesto ai miei compagni maschi se per loro sarebbe stato un problema avermi nello spogliatoio con loro, considerato che era l’ultimo anno di liceo. Loro sembravano molto tranquilli, e ho sottolineato che se avessero detto di no o si fossero sentiti in imbarazzo, avrei capito. Per loro non c’era nessun problema, quindi mi sono rivolto alla professoressa. Lei non ha accettato la mia richiesta, e come alternativa, optò per farmi cambiare nel deposito degli attrezzi. Dopo due lezioni, però ho rischiato di rimanere chiuso dentro, perché la porta di sicurezza si apriva solo all’esterno, e la stanza era insonorizzata, quindi se anche avessi chiesto aiuto, da fuori nessuno avrebbe potuto sentire. Avrei rischiato di rimanere bloccato lì l’intero weekend, perché l’ora di educazione fisica era l’ultima della settimana. Quella volta, quando l’insegnante è venuta ad aprirmi, si poteva leggere una forte paura nei suoi occhi, tant’è che non ha detto nulla, se non: “Ok, la prossima volta vai nello spogliatoio dei maschi”.
Tu come hai vissuto quell’episodio?
Non ero mai stato così arrabbiato in vita mia, ed ero pronto a dirgliene di tutti i colori, ma guardando la sua espressione, non ho avuto bisogno di aggiungere nulla. Di certo non è stata una bella esperienza, anche perché lo stanzino era veramente minuscolo, e tieni conto che io, a volte, soffro di claustrofobia.
Alla fine possiamo dire che ce l’ho fatta, e tutta questa situazione mi è servita per capire la grande differenza che c’è tra il liceo e l’università. Al liceo sei ancora comunque piccolo, non ti rendi conto al 100% di quelli che sono i tuoi diritti come studente e dipendi ancora molto dai genitori, quindi non puoi combattere queste battaglie da solo. Io ho la fortuna di avere una famiglia che mi accetta, ma non ho voluto coinvolgerla in queste cose.
Ci sono anche stati altri episodi che potrei raccontarti, ma credo che quello più significativo, sotto diversi punti di vista, sia stato quello che ha visto coinvolto il professore di religione.
Ne vuoi parlare?
In quarta liceo volevo fare coming out approfittando del progetto finale del secondo semestre di religione. Dovevamo svolgere una ricerca su un determinato argomento, e io avevo scelto di parlare del mondo trans. Ero molto attento nella ricerca di immagini, ma sembrava che anche le foto più innocenti, come un bambino che si prova i tacchi della mamma, non andasse bene. Il giorno della presentazione, dopo l’esposizione, avevo creato una slide di foto con attivisti internazionali anche abbastanza famosi, e il professore si è messo a discutere su un americano, di cui non ricordo il nome, per via della sua mascella. Secondo lui, non si poteva trattare di una persona FTM (female-to-male, ndr) ma un uomo CIS (cisgender, ndr), in quanto dal punto di vista biologico, a parer suo non era possibile che una persona “nata donna” avesse una mascella così pronunciata. Quindi alla fine non ho avuto il coraggio di fare coming out.
Un giorno, poi, durante l’intervallo, ero con il mio migliore amico, con la rappresentante di istituto e con la sua ragazza, e questo professore ci ha fermato nel corridoio per dirci che una ragazza del primo o del secondo anno era “malata di mente”, perché chiedeva ai compagni di farsi chiamare con il pronome maschile. Noi quattro, i più queer della scuola, non potevamo credere a cosa stesse dicendo: per prima cosa, perché stava violando la privacy di un suo studente, secondo perché si era permesso di dare dei giudizi del tutto sbagliati. Non sarei mai riuscito a rispondergli, i miei pensieri li ho ritirati nella parte più remota del cervello, e volevo solo stare ben attento a tutto quello che diceva, per poi riportarlo al Preside. Gli altri ragazzi con me hanno cercato di farlo riflettere sul fatto che non fosse una malattia mentale, e lui in pieno corridoio, per cercare di smentirci, ha tirato fuori il DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, e casualmente ha subito trovato la pagina giusta, che ci ha letto. Ha anche fatto la battuta sulla bisessualità, che reputava ovviamente una malattia.
Quando siamo andati dal Preside, ci è stato risposto che la scuola non poteva fare nulla, perchè i professori di religione vengono scelti dalla Curia. Eravamo molto arrabbiati, poi tutti gli altri docenti hanno scritto una lettera di lamentele riportando diversi suoi comportamenti scorretti. A quel punto la Curia l’ha mandato via… trasferendolo, però, alle medie. Avrebbe sicuramente fatto più danni lì rispetto ad una scuola secondaria di secondo grado, quindi il trasferimento l’ho quasi visto come una sconfitta. Avevamo qualche possibilità in più di difenderci, noi, poi nel mio liceo artistico ci supportavamo molto.
Crescendo la situazione è migliorata?
Nel momento in cui ho dovuto scegliere l’università, chiedevo agli atenei se avevano attivato la “carriera alias”, che prevede un'identità differente collegata all'identità anagrafica, valida solo all'interno dell'Ateneo, per permettere allo studente o alla studentessa in transizione di genere di poter frequentare in modo inclusivo e nel rispetto della sua identità. Quando mi sono rivolto al Politecnico di Milano, ad esempio, non era ancora attiva, ma grazie anche alla mia richiesta, è stata attivata l’anno successivo.
Questo per farti capire come il sistema universitario ti aiuti maggiormente, rispetto a quello scolastico obbligatorio, e credo sia sbagliato, visto che è proprio al liceo che sei più fragile e hai più bisogno di aiuto.
Io sono stato fortunato nell’essermi poi iscritto al NABA (Nuova Accademia di Belle Arti, ndr) dove c’erano già stati, prima di me, tantissimi studenti e studentesse transgender, quindi i miei professori erano preparati.
"Ognuno vive il proprio genere e la propria identità come meglio sente, nei modi che riesce"
Hai più volte accennato al tuo coming out. È stato spontaneo o, in qualche modo, forzato?
La prima volta che mi sono rivolto al centro MIT (Movimento Identità Transessuale, ndr), ero ancora minorenne e sono dovuto andare accompagnato da mia madre. Avendo i genitori separati, dopo questo passo, dovevo fare coming out con mio padre, perché avevo bisogno della sua firma per iniziare la terapia psicologica. I costi erano molto elevati, perché ero minorenne, e una volta terminato il colloquio, mia madre non aveva il coraggio di dirmi che quei soldi erano troppi. Ma la rassicurai subito, avvisandola che non le avrei mai permesso di spendere quella cifra.
Quando ho fatto coming out con mio padre e mia nonna, avevano una visione abbastanza “ignorante”, in senso buono: erano abituati a vedere persone trans adulte, non adolescenti. Per mio padre, infatti, se avessi voluto fare la transizione, avrei dovuto aspettare i 30 anni, perché credeva fosse quella l’età in cui si poteva fare. L’età in cui sei maturo e responsabile, e in grado di prendere certe decisioni così importanti.
Negli anni mi sono reso conto che ci sono molti adolescenti trans, e sono contento di aver fatto coming out da giovane, perché così avrei potuto aiutarli. Erano abituati a vedere trans adulti, quindi si domandavano anche se e quanto fosse valido quello che loro sentivano. Non sentivano di altri ragazzi trans, o almeno non in Italia, purtroppo. Si leggeva e si sentiva parlare di giovani attivisti trans americani o inglesi, ma non del nostro Paese.
Anche nei centri, per quanto riguarda i minori, è abbastanza delicata la cosa, forse perché anche loro devono proteggersi. Però il fatto stesso che io avessi bisogno della firma di entrambi i genitori, mi ha portato ad un coming out forzato, quando invece avrebbero dovuto aiutarmi in modo diverso, per farmi diventare pronto a farlo.
Dopo la mia esperienza al MIT ho intrapreso una terapia psicologica a parte, continuando però ad andare a Bologna per frequentare il gruppo trans, una realtà bellissima nata da diverse persone transgender e non binary. Io poi mi sono spostato a Milano e mi sono avvicinato all’associazione ALA (che si occupa di tutela della salute, inclusione sociale, lotta alle discriminazioni e cooperazione, nr), che tra le varie strade pubbliche, mi ha proposto il Niguarda, ma dopo aver visto la lista d’attesa, mi è passata la voglia. Ad oggi posso dire di aver cominciato il percorso a Milano privatamente grazie all'associazione ALA e ACET.
Da quanto hai raccontato, emerge anche la differenza tra l’attivismo di una cittadina cattolica e una metropoli come Milano.
Io ho iniziato a fare attivismo durante gli ultimi anni delle superiori e posso dirti che non mi sono risparmiato su nessun fronte. Ero in una piccola città, e con un mio amico abbiamo fondato una realtà LGBTQIA+, proponendo laboratori nelle scuole e una serie di incontri settimanali presso la sede che avevamo avuto in dotazione gratuita. Tra questi, una conferenza sui campi di concentramento in Cecenia, invitando il giornalista italiano che aveva scritto il più importante e completo articolo a riguardo. Abbiamo anche collaborato con il SERT, e un mese prima della maturità ho rischiato di essere espulso, perché consegnavo preservativi gratis ad altri studenti. Dopo 8 mesi di attività siamo stati contattati dal segretario di Arcigay nazionale, che venne a parlare durante un nostro incontro e ci chiese di collaborare con l’Arcigay del nostro territorio, Ravenna, che però era praticamente morta.
A Milano mi sono avvicinato a Arcigay Milano e mi sono reso conto che nella piccola città il “nemico” lo hai di fronte ogni giorno, e hai un fuoco dentro che ti spinge a fare sempre di più per ottenere i diritti che tutti meritano. Gli attivisti hanno la tua stessa carica emotiva nel voler raggiungere i tuoi stessi traguardi e i tuoi stessi obiettivi, e quindi hai una spinta più forte di quella che puoi avere facendo attivismo in una metropoli. Lì, infatti, nonostante gli episodi di omofobia e transfobia, sembra di vivere in una realtà a parte. Credo che la vera differenza sia in quanto si voglia spingere certi progetti: nelle cittadine è più facile proporre idee anche più grandi e avere l’occasione di incontrare il Sindaco ed esporgli certe problematiche. Nelle metropoli, invece, se un’iniziativa viene approvata, si ha un po’ il timore di proporne una più grande, per paura che dall’altra parte si possa fare un passo indietro. Inoltre, per chiedere un appuntamento con il Sindaco, possono volerci anche mesi, quindi è tutto più complicato a livello burocratico.
Cosa puoi dirci riguardo gli stereotipi e le aspettative di genere verso le persone trans dal mondo eteronormato e non?
Inizio con il raccontarti quella che è una mia frustrazione, e cioè che se io, in quanto trans, volessi mai vestirmi un pochino più al femminile, perderei qualsiasi mia validità come uomo, per il fatto che sono comunque nato biologicamente donna, di un ragazzo CIS che indossa i miei stessi abiti femminili. Le persone trans, poi, si sentono di dover seguire, o meglio inseguire un determinato stereotipo di genere per soddisfare la società, per cercare il più possibile di apparire come una qualunque persona CIS.
Mi è capitato di non essere considerato “valido”, da altre persone della comunità LGBTQIA+, proprio perché non ero super mascolino, non indossavo determinati vestiti o per la mia gestualità. Questo è sicuramente uno degli ambiti su cui voglio focalizzarmi di più prossimamente, perché è ok se una drag queen o un drag king, non transgender, indossano quegli abiti, mentre non è ancora totalmente accettato il fatto che una persona trans voglia giocare un po’ di più con il ruolo di genere.
Abbiamo parlato della transfobia nella società. Come viene invece vissuta all’interno della comunità?
Penso sia risaputo che la nostra comunità non è perfetta, e che abbiamo anche noi i nostri pregiudizi, in particolare con chi riteniamo più privilegiati, cioè gli uomini gay CIS. Nel mio paese, eravamo tutti inclusi nella categoria gay, quindi se ce l’avevi con uno, ce l’avevi con tutti. A Milano, invece, ci sono così tante realtà, per cui se un gay viene qui, si sente soddisfatto e sta bene, ma allo stesso tempo ha un po’ di omofobia/transfobia interiorizzata. Qui senti spesso dire: “Sì, sono gay, ma non mi mettete allo stesso livello dei trans”.
Mi è capitato di sentirmi dire: “Sei trans, che coraggio che hai”, e altri “complimenti”, e poi scoprivo che andavano in giro a dire che non ero un trans, ma solo una lesbica. Episodi del genere, purtroppo, me ne sono capitati molti. Addirittura c’è stato un professore che ha detto una frase simile ai miei più cari amici mentre stavo prendendo l’autobus per andare a casa. Loro non sono riusciti a rispondere bene, e quando me l’hanno riportato mi hanno chiesto scusa per questo, per non essere riusciti a ribadire il concetto con abbastanza energia. Ma li capisco, non tutti sono pronti a reagire in quel modo.
Mi è anche successo quando ricevevo complimenti della serie: “Sei molto bella”, e rispondevo facendo coming out: “Grazie, ma in realtà lo prendo come un “bello”, sono un ragazzo trans”. Subito mi chiedevano se lo ero da poco, visto che non avevo ancora avuto gli ormoni, quindi dovevo spiegare che la transizione, a livello medico, non è esattamente obbligatoria. E vedevo che questa cosa, ai loro occhi, mi rendeva trans, ma di serie B.
Parlando di ormoni, sai dirci qualcosa in più sul microdosing?
Sempre più centri, in Italia, stanno acquisendo la procedura del microdosing, che non modifica affatto gli "step" della transizione per una persona trangender. Infatti, quando si arriva allo step del colloquio con l’endocrinologo, si parla di questa preferenza che si vuole avere. A Firenze c’è un gruppo di persone trans di grande ispirazione, sono tutte persone non-binary che sono quanto più lontani possibile dal concetto stereotipato di trans, cioè da uomo a donna o da donna a uomo, che negli ultimi anni ha fatto parlare molto di microdosing.
Foto di Clotilde Petrosino
Intervista di Clotilde Petrosino e di Krizia Ribotta Giraudo