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Persona su un cantiere con palazzi vestita di nero e con trucco

Foto e progetto di ©Clotilde Petrosino all rights reserved

Quest’intervista è stata realizzata a Luglio 2021 e la sua versione integrale, completa di foto inedite, sarà pubblicata sul libro “The Queer Talks”, a cui stiamo lavorando, per restare aggiornatə clicca qui

Chiedete ad Alix il suo genere e la sua età e la risposta che otterrete sarà la stessa: fluida. Convintə scetticə del binarismo, artista multi potenziale ha espresso la propria arte attraverso la danza e il teatro negli anni vissuti tra Parigi, Lisbona e Londra.É arrivatə alla sublimazione del proprio talento attraverso la musica, medium con il quale sintetizza e concretizza il proprio percorso sino ad oggi. A parlarlə mentre regge tra le mani la Patty, l’ukulele dalle vibe anni ‘70 con cui trasforma in musica parte delle proprie ispirazioni artistiche, sembra di essere in presenza di unə diva della musica francese,Alix incarna alla perfezione la tipica esteta che la mattina si perde tra le strade del les Puces de Saint-Ouen prima di andare a protestare a la Bastille. Un romanticismo disincantato per la vita, e un sottofondo sentimentale che alla vita non vuole arrendersi né tantomeno cedere a compromessi. Cresciutə tra il nord Italia da genitori immigrati dalla Puglia, e Parigi, che è stata la città dello sviluppo della madre e che Alix stessə ha iniziato ad abitare in adolescenza prima di trasferirsi in toto, è tornatə a Milano non solo per contribuire al cambiamento radicale di questo paese ma con uno scopo ben preciso: risvegliare dall’intorpidimento quel cantautorato queer italiano che fino ad ora non è riuscito a sfondare il glass ceiling dei sistemi di potere.

Alix, parlaci di te e di cosa ti ha portato fino a qui. 

Buongiorno mi chiamo Alix, sono “agefluid”, ovvero non amo dire la mia età e farmi inserire in categorie generazionali. decidete voi che età ho. Sono arrivatə qualche mese fa in Italia dopo aver vissuto per anni a Parigi. Sono di origine pugliese, anche se sono cresciutə nel nord Italia da genitori immigrati dal meridione. Ad oggi ho una parte della famiglia biologica in Puglia, ma ho anche parenti in Francia, Polonia, Inghilterra e Germania. Più di tutte, sono culturalmente legata alla Puglia e a Parigi, che sono stati i due centri nei quali sono cresciutə. Da qualche mese sono finitə in Italia un po’ per caso. La pandemia è scoppiata quando mi trovavo tra Londra e Lisbona, mentre stavo per lanciare il mio disco. Avrei dovuto fare dei concerti ad aprile 2020. Ho quindi deciso di spostarmi a Milano, e una volta qui, ho preso quello che avevo scritto fino a quel momento e l’ho buttato. Ora ho un'equipe sparsa tra Milano, Parigi e Londra e stiamo mettendo insieme pezzi e materiale scritto in questi anni, in italiano, francese e inglese, e abbiamo cominciato a pubblicarlo. Sintesi di riferimenti e di persone che mi hanno ispirato, da Nina Simone e M.I.A, alla musica elettronica, fino al Jazz e alla musica folk. Sono molto devotə alle cantautrici donne, da Violeta Parra a St. Vincent, da Rosa Balistrieri a Pomme, che hanno preso la chitarra e hanno cantato contro il potere, contro la vita ma anche come inno ad essa. Nel mio lavoro c’è questa dicotomia tra l’essere un po’ incazzata e un po’ melanconica.

Qual è il confine tra personale e collettivo?

Ti rispondo per quello che sento io oggi ,non si tratta di verità assoluta. Per me non c’è separazione. Non vivo isolatə nell’iperuranio, incontro delle persone,  mi muovo in città, e mi esprimo attraverso delle lingue. L’aspetto personale è sempre relazionale perché si è sempre in relazione con qualcun altro. Si è sempre in dialogo, e quando c’è qualcosa che non funziona, perché qualcuno fa la voce grossa o non vuole ascoltare, lì nascono i problemi che si ripercuotono a livello individuale. Molto concretamente se guardi i femminicidi è vero che ci sono stronzi che li commettono,  ma  avvengono in famiglia o in strada davanti agli occhi complici silenti. La maggior parte di coloro che agiscono violenza, si sente protetta e legittimata, mentre chi la subisce sviluppa delle strategie  di sopravvivenza, imparando ad evitare il conflitto, quali strade prendere, se rispondere e quando rispondere. È la società ad essere strutturata per proteggere collettivamente chi commette violenza e colpevolizzare ed esporre individualmente chi la subisce. Quindi l'unica strada che vedo è cambiare questi equilibri, cambiare insieme la società nella quale viviamo da un punto di vista culturale, sociale e giuridico. Abbiamo tuttə la responsabilità di questo cambiamento, è una responsabilità collettiva. Chi subisce violenza non puo' sentire individualmente il peso di quello che ha vissuto né la responsabilità di dover reagire singolarmente.

Ci sono stati periodi in cui subivo più o meno un paio di aggressioni omotransfobiche a settimana, anche in una città come Parigi. Una in particolare me la ricordo perché sono nate delle amicizie. Stavo dormendo con la testa appoggiata al mio partner, e un tizio con in mano una bottiglia ha iniziato a insultarci dicendo che dovevamo morire e che dovevamo essere impiccati. Ha tentato di coinvolgere altre persone ma nessuno ha reagito. Poi ha chiesto l'intervento di una ragazza lì vicino, che era di spalle e che stava ascoltando la musica e non si era accorta di ciò che stava succedendo. Era una sex worker, attivista, lesbica e quando ha capito cosa stesse succedendo, ha cominciato a gridare con noi,contro questo tizio, e a noi si è unita una ragazza nera. Tra noi si è creata un’amicizia fortissima, mentre nessun uomo etero-cis-bianco ha preso parola. Come fai a separare tutto questo dalla società? Quella violenza è sostenuta da una legittimazione e da una complicità, altrimenti quel tizio non ci avrebbe mai aggredito e minacciato. Nonostante le trecento persone presenti, non ha temuto per la propria incolumità e ha sentito di poterlo far

Se c’è un contesto esterno che sostiene discriminazione e permette questi eventi, come recuperiamo gli spazi? Dobbiamo creare alleanze con chi ha il privilegio oppure partire da noi lasciandoli fuori?

Io non ho la bacchetta magica. Vado di istinto e analizzando la situazione. Le comunità LGBTIQ+ non sono comunità compatte, ci sono differenze, e persone che hanno più privilegi. Non esiste il noi e loro-persone privilegiate da una parte e persone oppresse dall’altra. C’è una società in cui ognuno ha privilegi per alcune cose e altre no. Ad eccezione di ricchi uomini cis bianchi con corpi abili estremamente eteronormativi, quindi lo 0,1% della popolazione-forse. È una questione di responsabilità personale perché nessuno è esente dall’essere l’oppressorə di qualcun altro. E chi ha strumenti in più, ha anche la responsabilità personale di usare il proprio privilegio per occupare degli spazi ai quali la maggior parte delle persone non può accedere e per condividere quel privilegio e quegli spazi con chi non vi ha accesso. Lottare per me vuol dire anche farlo per chi non può. Tantissime persone non possono essere rappresentate, non possono essere out, non possono andare in piazza a manifestare e prendersi quello spazio perché rischiano di più. Io posso perché il mio rischio è limitato. E se penso al mondo dell’arte e al mio lavoro, sto facendo fatica a trovare artistə e voci che occupano degli spazi con casse di risonanza ampie che prendono delle posizioni chiare e dicono “sì sono gay, e qual è il problema?” o “io sono una persona non-binary e quindi?” Sento molto timore e penso che quando si ha quella piattaforma bisogna assumersene la responsabilità e correre dei rischi. Ci riprendiamo gli spazi se chi può permetterselo comincia a dire “sono una persona non-binary e con me nelle interviste usi entrambi i pronomi e se è un problema studi.” Ma la situazione varia moltissimo in base ai paesi. In Francia ho molti più esempi e riferimenti di persone e artistə out o politicamente schieratə. In Italia, per quel poco che conosco, solo negli ultiimi anni comincio a vedere artistə e voci

In un’altra intervista ho parlato di come sia sempre la persona della minoranza a dover spiegare e avere pazienza con chi “non ci arriva”. Tu che ne dici?

Quella per cui dobbiamo sempre essere noi a spiegare e a capire è una dinamica di potere da manuale. Penso che gli spazi ce li prendiamo, quando cominciamo a mettere limiti, confini e a far rispettare le cose. Non è un lavoro che si fa da solə, ma ad esempio io tento di circondarmi delle persone giuste, con persone con cui sono allineatə rispetto a quello che stiamo facendo. Perché qualsiasi cosa scrivi, in qualche modo, sei sempre politicə. Nessuno è esente da agire come soggettività politica all’interno della musica, dell’arte o in qualsiasi sfera della vita, sia privata che pubblica. Sei vettore di alcune narrative che ci piaccia o no. Scrivere un libro o andare su un palcoscenico ti rendono vettore di narrative, che piaccia o no. Un passo importante, oltre al messaggio, è iniziare a fare rete nelle equipe dietro all’artista. Essere compattə nel riconoscere che si sta difendendo qualcosa, e che magari si sbaglierà, ma che tutto quello che fai o dici come artista è portatore di narrative. Per questo bisogna lavorare sui palchi e dietro le quinte perché nessuno–che faccia parte del proprio progetto artistico o meno–debba nascondersi o sentirsi escluso per il solo fatto di essere una persona non-binary, musulmana o con disabilità, sieropositiva o  razzializzata. È un percorso lungo e fatto di tappe e di crescita. ə artistə non sempre possono decidere tutto della propria carriera. Se c'è una cosa che mi ha portatə a fare arte sempre e comunque in tutti i momenti della mia vita è che questa mi permette di crescere e di imparare. E di ascoltare chi mi sta attorno..

Alix - TheQueerTalks

"Per me, il sistema binario è già morto, gli uomini e le donne non esistono più. "

Esiste una rete di supporto? Si sta creando?

L’ambito artistico-musicale non è diverso dal resto della società. Si può sempre fare meglio. Io sono ottimista, di indole, ed è anche una scelta perché preferisco guardare alle cose che ci sono, più che a quelle che vanno male. Continuando a guardare quello che non funziona,  crei una visione del mondo pessimistica. Delle reti esistono, abbiamo più strumenti di una volta per farne, nonostante i problemi che ci sono. Sicuramente əi artistə hanno meno potere rispetto a una volta, sono più ricattabili a livello contrattuale, perché la società si è spinta più verso i numeri.  Trovare qualcuno che investa su di te perché il discorso che fai tu è fondamentale nella società, è difficile. Prima devi fare numeri e vendere, poi puoi avere più libertà nel dire e fare la tua arte nel modo in cui credi tu. Siamo tuttə in questo stesso sistema, quindi in qualche modo siamo tuttə un po' costrettə a farli sti numeri, e anche tra manager, produttorə e venues è diventato molto difficile investire sul talento e sulla qualità artistica e politica di un progetto. E chi lavora bene anche tra ə manager è un gruppo minoritario. Questa cosa si riflette anche tra il gruppo di artistə. Quindi se non fai numeri sei ricattabile.

Parliamo di binarismo e identità di genere. Quanto l’identità di genere è politica?

Per me il sistema binario è già morto, gli uomini e le donne non esistono più per me. Mi fa sempre molto sorridere, quando una parsone si identifica come donna o uomo cis. Le categorie sono utilizzabili in maniera politica. Quel sistema binario non esiste più, perché divide corpi in base agli organi genitali in due categorie. E con quale arbitrarietà! Perché usare i genitali per categorizzare? Perché non abbiamo scelto, non so, le ginocchia per stabilire le categorie? E poi su questo è stato costruito un sistema di valori e aspettative per cui se hai dei genitali di un certo tipo hai certe tendenze, devi fare certe scelte eccetera. Una determinazione basata sul nulla. Per sostenere i sistemi binari di uomo-donna si menzionano sempre la biologia e la natura, ma cosa c’è di naturale in questo rapporto? Perché se ho una vulva ho un salario più basso? Visto che nessuno mi spiega questa correlazione io a queste idiozie non ci credo.
Quando ci libereremo di questa zavorra del genere, semplicemente saremo dei corpi. Perché anche chi si definisce cis, si porta sulle spalle il fardello dell’oppressione. Basti pensare alle aspettative a cui deve attendere un uomo cis etero: devi essere forte, violento, non devi fare certe cose, non puoi essere timido.. ma dov’è la realtà di questi stereotipi? Mettiamo da parte questa balla e sentiamoci liberə di vivere come corpi e chissene frega di cos’hai tra le gambe.
 

Lo trasmetti nella tua arte?

Penso che la mia musica e il mio lavoro siano molto fluidi, da molti punti di vista. Del binarismo in generale (bello/brutto; giusto/sbagliato; acustico/elettronico) non me ne frega niente. Quello che mi emoziona di più nella musica, nell'arte e nella cultura collettiva, è l’emancipazione, che avviene quando si superano i binarismi e si inventa qualcosa. Mi emoziono quando vedo delle persone che,attraverso la mia musica, o altra musica, si emancipano. Quando ci emancipiamo collettivamente ci liberiamo collettivamente.

Bisogna essere open quindi? 

Non è una questione che ogni persona deve raccontare i cazzi propri, è che in Italia c’è questo clima da anni ’50 per cui non si risponde sinceramente a domande come “sei omosessuale?”. È una domanda del cazzo da parte del giornalista, certo, ma come si sa rispondere a tante altre domande del cazzo, allora si risponde anche a quella con un “sì, e quindi?” e move on. Cosa può succedere oltre? Ti chiede cosa fai in camera da letto? No. Non so perché c’è ‘sto tabù e questo silenzio. A me sembra che è molto più semplice di così. Certo che un pochino si rischia, la carriera artistica è rischiosa. Non puoi tapparti la bocca per qualsiasi cosa e cambiare qualsiasi cosa di te svuotandoti di tuttə te stessə. C’è anche l’aspetto,difficilissimo, nei team, che devono essere più intersezionali. Se penso che nell’industria musicale il 98% delle posizioni di potere o decisionali sono occupate da uomini cis, penso che noi artistə, agenzie e case discografiche dobbiamo metterci insieme a dire che c’è un problema, riconoscerlo, pensare a come risolverlo. Creando spazi. 

Foto e Progetto di Clotilde Petrosino

Intervista e Traduzione di Enea Venegoni

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